Ex CEO di Autostrade si prepara a consegnarsi dopo la conferma della condanna a sei anni per il disastro del 2013
A dieci anni dalla tragedia, la giustizia è stata fatta – e contestata
Giovanni Castellucci, l’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia (Aspi), si sta preparando a consegnarsi alle autorità dopo che la Corte Suprema italiana ha definitivamente respinto il suo appello contro la condanna a sei anni di reclusione. La condanna deriva dal disastro del 2013 di un autobus vicino ad Avellino, in Campania, che ha causato la morte di 40 persone. La sentenza segna il culmine di una battaglia legale decennale e solleva interrogativi cruciali sulla responsabilità aziendale e la sicurezza delle infrastrutture in Italia.
La tragica vicenda si è verificata su un tratto dell’autostrada A16, un’arteria vitale che collega Napoli e Bari. Un autobus che trasportava studenti in gita scolastica verso località sciistiche ha perso il controllo ed è precipitato da un viadotto, causando uno dei più gravi incidenti stradali della storia recente italiana. Le indagini iniziali si sono rapidamente concentrate su potenziali difetti strutturali nelle barriere di sicurezza dell’autostrada e sulla mancanza di un’adeguata manutenzione.
L’accusa: negligenza e fallimento sistemico
I pubblici ministeri hanno sostenuto che Castellucci, in qualità di amministratore delegato di Aspi – la società responsabile della gestione e della manutenzione dell’autostrada A16 – aveva una significativa responsabilità per le condizioni che hanno portato all’incidente. Hanno presentato prove che suggerivano che Aspi fosse a conoscenza del deterioramento delle barriere di sicurezza per anni, ma non avesse adottato misure correttive adeguate. L’accusa ha sostenuto che misure di riduzione dei costi e la priorità dei profitti rispetto alla sicurezza hanno creato un fallimento sistemico che ha contribuito direttamente alla tragedia.
L’atto d’accusa affermava che Aspi aveva deliberatamente ritardato le necessarie riparazioni e manutenzioni, nonostante ripetuti avvertimenti da parte di ingegneri e rapporti interni che evidenziavano i rischi. I pubblici ministeri hanno sostenuto che questa negligenza costituiva una violazione delle normative sulla sicurezza e dimostrava un’imprudente mancanza di rispetto per la vita di coloro che utilizzavano l’autostrada. Hanno inoltre affermato che Castellucci, in quanto capo dell’azienda, era in ultima analisi responsabile di questi fallimenti.
L’argomentazione della difesa: responsabilità mal riposte
Il team legale di Castellucci sostiene fermamente la sua innocenza, sostenendo che la condanna si basa su un’errata interpretazione del suo ruolo e delle sue responsabilità come amministratore delegato. Sostengono che la corte ha erroneamente attribuito a lui responsabilità operative e tecniche che appartenevano legittimamente ad altri individui all’interno dell’azienda.
La difesa afferma che il ruolo di Castellucci era principalmente strategico e gestionale, incentrato sulla direzione generale dell’azienda, e che non era direttamente coinvolto nella manutenzione e riparazione quotidiana dell’infrastruttura autostradale. Sostengono che la responsabilità di identificare e affrontare specifiche preoccupazioni per la sicurezza spettava ai dipartimenti tecnici e agli ingegneri dell’azienda.
“Si tratta di un caso di capro espiatorio”, ha dichiarato la professoressa Elena Rossi, un avvocato di spicco che rappresenta Castellucci. “Il mio cliente viene ritenuto responsabile per azioni compiute da individui più in basso nella catena di comando. La corte non ha riconosciuto la chiara divisione delle responsabilità all’interno di Aspi.”
La difesa ha inoltre evidenziato la complessità della gestione di una vasta rete autostradale come l’A16, sottolineando le sfide di identificare e affrontare tutti i potenziali pericoli per la sicurezza. Hanno sostenuto che Aspi aveva implementato un sistema completo di gestione della sicurezza e che l’incidente è stato un evento imprevisto e tragico, piuttosto che il risultato di negligenza deliberata.
La sentenza della Corte Suprema: un giudizio definitivo
La Corte Suprema italiana, tuttavia, ha respinto le argomentazioni della difesa, confermando la condanna originale e la pena detentiva di sei anni. La corte ha stabilito che Castellucci, in qualità di amministratore delegato, aveva il dovere di garantire la sicurezza dell’infrastruttura autostradale e che non aveva adeguatamente adempiuto a tale dovere.
La decisione della corte si è basata su un’analisi dettagliata delle prove presentate durante il processo, inclusi documenti interni di Aspi, testimonianze di esperti e dichiarazioni di testimoni. I giudici hanno concluso che Castellucci era a conoscenza del deterioramento delle barriere di sicurezza, ma non aveva adottato misure sufficienti per affrontare i rischi.
“L’amministratore delegato ha l’ultima responsabilità per la sicurezza dell’infrastruttura sotto la gestione della sua azienda”, si legge nella sentenza della corte. “L’ignoranza o l’inazione non possono essere scusate di fronte a un rischio così grave per la sicurezza pubblica.”
Implicazioni per la sicurezza delle infrastrutture e la responsabilità aziendale
La sentenza della Corte Suprema ha importanti implicazioni per la sicurezza delle infrastrutture e la responsabilità aziendale in Italia. Invia un chiaro messaggio che i leader aziendali saranno ritenuti personalmente responsabili per i fallimenti nella gestione della sicurezza, anche se non sono direttamente coinvolti nelle operazioni quotidiane dell’azienda.
Il caso ha anche riacceso il dibattito sulla privatizzazione delle infrastrutture e sui potenziali conflitti tra massimizzazione del profitto e sicurezza pubblica. Aspi, precedentemente una società statale, è stata parzialmente privatizzata nel 2006 e i critici hanno sostenuto che la ricerca del profitto ha portato a un declino degli standard di sicurezza.
La resa di Castellucci e le prospettive future
Con la sentenza della Corte Suprema definitiva, Castellucci si sta ora preparando a consegnarsi alle autorità e a iniziare a scontare la sua pena detentiva di sei anni. I suoi avvocati hanno espresso la loro delusione per l’esito e stanno valutando tutte le opzioni legali disponibili, anche se lo spazio per ulteriori appelli è limitato.
Il caso è destinato a rimanere oggetto di dibattito pubblico per un po’ di tempo, sollevando importanti questioni sull’equilibrio tra interessi economici e protezione della vita umana. La tragedia del disastro del 2013 ricorda con forza l’importanza fondamentale di investire nella sicurezza delle infrastrutture e ritenere responsabili coloro che non riescono a garantire tale sicurezza.
Le famiglie delle vittime hanno accolto con favore la sentenza della Corte Suprema, esprimendo la speranza che porti un po’ di chiusura e giustizia dopo anni di dolore e sofferenza. Hanno anche chiesto una revisione approfondita degli standard di sicurezza delle infrastrutture per prevenire tragedie simili in futuro.
